di Gianfranco Maccaferri
Una esposizione apparentemente di agevole visione, giocosa ma dotta, con la caratteristica di essere interpretabile e godibile per i molteplici elementi di interesse. Ma per approfondire l’evento culturale preferisco iniziare dall’ultimo argomento normalmente trattato parlando di una mostra, cioè il catalogo.
Ecco, questo oggetto cartaceo confezionato per l’occasione è davvero prezioso e andrebbe usato come elemento di analisi, di studio nelle scuole che si occupano di grafica, di comunicazione, di design, oltre che di fotografia, questo perché le scelte compositive grafiche, gli spazi, il bianco, il carattere, le gabbie che delimitano e trattengono i testi; tutto è armonicamente semplice, tutto conduce all’opera riprodotta senza distrazioni o disturbi. È stato tolto, sottratto tutto ciò che non è indispensabile; e il bianco contiene e racconta ciò che è essenziale riprodurre.
Un corpo cartaceo prezioso da tenere come modello, poiché esso stesso racconta dell’autore di cui narra.
E ora affrontiamo la ricerca che Mario Cresci propone: la mostra è suddivisa in tre settori e tra questi vivono dei legami che danno continuità e consonanza. “Fatti a mano” è un’analisi di grafica essenziale dedicata agli oggetti che Cresci ha trovato al MAV, il Museo dell’Artigianato Valdostano di tradizione.
Quando Cresci elaborava la “Memoria rivisitata” ma ancor più quando si addentrava nelle “Misurazione” in cui segni, forme, significati restituivano letture sino all’epoca inusitate e non esplorate …quando 50 anni fa Cresci svolse quelle ricerche, sorpresa e stima furono tangibili nella cultura italiana. Cresci indagava e provocava dove altri non riuscivano neppure a intuire potenzialità e necessità.
Oggi Cresci, libero da indagini e misurazioni oramai storicizzate… gioca! E in questa mostra il divertimento è evidente come l’allegria nel cercare pulizia estetica nel muovere segni a lui conosciuti. La bellezza della forma, liberata dall’indagine sperimentale e provocatoria, oggi è pura. “Fatti a mano” è quindi la serenità consapevole di un respiro grafico armonioso e sapiente dedicato alla semplicità degli oggetti tradizionali in uno spazio/memoria/momento circolari che Cresci ripropone.
“Mon cher Abbé Bionaz” è un altra tipologia di materiale, la fotografia antica, sulla quale applicare la personale cultura dei segni grafici con cui Cresci interagisce, provoca pensieri, induce riflessioni.
È il materiale fotografico risalente tra la fine ‘800 e l’inizio ‘900 realizzato da Don Emile Bionaz. Ritratti di paesani, gruppi di villani, insiemi di persone a cui Cresci sottrae volti impedendoci di individuarne la sembianza ma permettendoci così di valutare e soffermarci su ben altro di quell’immagine… ruba i tessuti di vesti povere per comporre grafiche che visivamente rimandano a intenzioni visive distinte… copia e incolla fisionomie per un grande e quasi infinito puzzle che, ripetendo se stesso, propone considerazioni sulla circolare ripetitività dello spazio geografico umano… ruba strumenti di lavoro o gesta agricole per comporre insiemi che determinano attenzioni su ciò che non è evidente nella fotografia originale, ma attenzione: Cresci fa questa operazione non per evidenziare banalmente delle forme ma bensì per proporre riflessioni sull’anteriore a noi, su ciò che nell’originale ci appare come un quotidiano non nostro, troppo distante da noi… ecco, tutto questo Cresci ce lo restituisce come il nostro passato prossimo (o grammaticalmente anche chiamato: il perfetto composto).
“Il mondo rurale 1990” qui invece ritroviamo il Mario Cresci fotografo, chiamato in Valle d’Aosta per una ricerca fotografica d’autore insieme a Ghirri, Basilico, Radino, Marcialis… fotografi interpellati per leggere il territorio, le sue genti, la sua cultura, il suo essere vissuto. Fotografi selezionati in quanto segnavano il “saper vedere” della cultura fotografica italiana. Cresci approfondì il mondo rurale valdostano con i codici e la sintassi fotografica che aveva concepito, costruito e affinato in esperienze rurali simili ma geograficamente lontane.
Lo condussi personalmente per villaggi, casolari, stalle, alpeggi, fiere agricole, abitazioni contadine sino a quando ritenne di aver raccolto materiale sufficiente per la sua indagine. Ricordo quanto Mario aveva la capacità di stupirsi nello scoprire paesaggi, architetture, attrezzi, gesta e giocattoli tipici della tradizione alpestre valdostana. La curiosità di Mario era sincera e le immagini che ne conseguirono sono tutt’oggi una sintesi assoluta d’indagine socio-antropologica, esplorazione della cultura materiale a lui da sempre affine. Immagini fotografiche che riassumono anche il saper vedere e quindi cogliere la cultura contadina in uno spazio rettangolare e bidimensionale che solo un autore curioso ma colto come Cresci poteva costruire.
Per chi volesse approfondire e contestualizzare il quasi sterminato lavoro culturale svolto da Mario Cresci in 60 anni di ricerca, si può leggere il sapiente testo di Roberta Valtorta in “Mario Cresci, La fotografia del no, 1964 – 2016” libro nel quale si trovano anche, in forma esaustiva: la biografia, le mostre e la bibliografia.
Per quanto invece concerne questa esposizione valdostana, indubbiamente lo spazio in cui si sviluppa all’interno del Castello Gamba di Chatillon è appropriato, intrigante, coinvolgente. Sicuramente piacevole il percorso in un ambiente strutturato professionalmente per ospitare esposizioni temporanee. Lascia più perplessi la localizzazione stessa del Castello Gamba: fuori dai circuiti turistici e isolato rispetto ai centri normalmente frequentati dai residenti interessati alle proposte culturali. Una mostra che rischia quindi di essere troppo poco “trafficata” rispetto al potenziale pubblico che senza dubbio può attrarre anche questo nuovo lavoro di Mario Cresci.
(3 aprile 2023)
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